sabato 5 gennaio 2013

(Scheda 245 - 6) STORIA della MEDICINA PROTOSTORICA e PRECOLOMBIANA.

LA MEDICINA PRECOLOMBIANA
                                   
Articolo informativo di Giuseppe Pinna per S. O. S. - “Osteomielitici d’Italia” - Onlus «Centro Servizi Informativi On-line per Osteomielitici e Pazienti dell’Ospedale CODIVILLA-PUTTI di Cortina d’Ampezzo»; che ci addentra in un per- corso storico narrandoci che: "durante il corso dei secoli la medicina ha attraversato diversi stadi che, secondo gli storici, sono i seguenti: medicina istintiva, medicina sacerdotale, medicina magica, medicina empirica, medicina scientifica".
STORIA DELLA MEDICINA 
ANTICA, MEDIEVALE E MODERNA
                   
La MEDICINA PRECOLOMBIANA
Nacque nell’anno zero (era dell'Acqua 
che cadeva secondo il Calendario Maya 
l’11 agosto del 3.114 (a.C.), Antica Civiltà Precolombiana.
Divinita mixteca associata alla medicina - Civilta precolombiana
                            
Anche se abitualmente la Medicina precolombiana viene trattata quando si parla del primo Rinascimento, viene qui opportunamente "anticipata" per sottolineare come essa già esistes se già molto prima della grande impresa di Cristoforo Colombo.
Come in tutte le civiltà precolombiane il ruolo di medico-stregone-sacerdote nei primi tempi era di solito assolto dalla stessa persona. 
Egli compiva una serie di atti rituali come quello di giacere accanto al malato, di frizionare la parte affetta e succhiare via la "causa" della malattia come punte di frecce, piccoli rospi o pie truzze, che aveva sin'allora tenuto abilmente nascosti.
                          
Da parte loro gli sciamani recavano con sé al letto del malato tutti i presidi terapeutici consi-derati essenziali per la guarigione: conchiglie, penne d'aquila, tabacco per purificare.
                     AZTECHI
                                       
Quando nel 1519 i soldati di Hernan Cortez sbarcarono sulle coste del Golfo del Messico cre-devano di avere ancora a che fare con le stesse popolazioni "primitive" delle Isole dei Ca-raibi: non si aspettavano certo di venire a contatto con una civiltà così progredita da avanza- re per certi aspetti quella di alcuni Paesi del Vecchio Mondo
                                                  La Valle del Messico al tempo della conquista spagnola
                                           
La capitale dell'Impero azteco, Tenochtitlan, il cuore dell'attuale Città del Messico, avrebbe potuto tranquillamente competere - in splendore - con le più celebrate capitali d'Europa.
I servizi igienici erano all'avanguardia: esisteva addirittura un ingegnoso sistema di fognatu-re per assicurare lo smaltimento dei rifiuti liquidi, e in ogni strada si ergevano quegli utilissimi "monumentini" che diedero poi fama all'imperatore romano Vespasiano.
I rifiuti solidi venivano trasportati e inceneriti fuori dalla città e ogni quartiere era responsa-bile della pulizia delle proprie strade.
Nell'attuale Guatemala, i Conquistadores incontrarono anche un'altra civiltà, quella del popo lo Maya, che in tempi andati aveva raggiunto il massimo splendore nella penisola dello Yucatan e nel sud del Messico
Questa civiltà, benché sulla strada della decadenza a causa dell'abbandono delle grandi città (per le pestilenze?) era tuttavia ancora assai rispettabile per quanto riguardava la cultura e le conoscenze mediche.
Ancora più a sud, nella zona delle Ande, la civiltà degli Incas si trovava allora all'acme della sua espansione. 
A nord, invece, erano i Pellerossa i padroni del territorio.
Presso gli AZTECHI, al sommo della gerarchia medica erano i sacerdoti Ahmen ("coloro che capiscono"), in grado di diagnosticare le malattie e indurre la guarigione. 
Per formulare la diagnosi, essi si servivano spesso di granelli di mais che facevano cadere in un vaso pieno d'acqua: dal modo con cui essi si disponevano, traevano le loro conclusioni.
Ma ad un certo momento, i medici veri e propri ticitl decisero di distinguersi nettamente dai guaritori, pur non rinunciando ad utilizzare talora come mezzi di guarigione le danze sacre e gli esorcismi.
Per gli Aztechi, la divinità suprema era Tezcatlipoca, cioè il sole. 
A lui sottoposti erano numerosi altri dei, protettori o malefici.
Ma i medici Aztechi ammettevano come cause di malattia non solo l'intervento degli dei "pa-togeni", ma anche la scarsa igiene, l'eccesso di caldo e di freddo, gli abusi alimentari. 
Le malattie note erano invero numerose, già prima dell'avvento dei Conquistadores: glauco- ma, ptosi palpebrale, scrofola, parassitosi intestinali, dissenteria, leishmaniasi, pediculosi, gotta, epilessia, scorbuto, elefantiasi, febbre gialla.
                           
Molto avanzata era l'ostetricia: la donna che aspettava un bambino si poneva automatica-mente sotto la protezione di Teteoinam e di Avopechtli (rispettivamente dea madre e dea del parto)
Doveva stare attenta a non guardare verso il sole durante un'eventuale eclissi, altrimenti il bambino sarebbe venuto al mondo -secondo la credenza- con il labbro leporino.
Non appena sopravvenivano le prime doglie, era d'obbligo un bel bagno di vapore. 
Se poi il parto si presentava difficile o ritardava, veniva data da bere una bevanda detta chi-hualpatli, indubbiamente dotata della proprietà di favorire le contrazioni dell'utero.
                                  
Anche in chirurgia gli Aztechi erano piuttosto progrediti. 
Sapevano ad esempio ridurre e immobilizzare le fratture con stecche o con innesti di legno di pino. 
Ma erano anche capaci di aprire un ascesso tonsillare, di cospargere le ferite con polvere di ossidiana per prevenire l'infezione, di praticare il salasso.
Nello strumentario chirurgico figuravano coltelli di pietra o di metallo, spine di agave, aculei di porcospino. 
Ma i chirurghi Aztechi eccelsero in quella misteriosa pratica che, diffusa al resto dell'America, all'Europa, all'Asia e all'Africa, ...la trapanazione del cranio.
Anche se i primi archeologi che si trovarono dinanzi a questi crani diedero delle spiegazioni semplicistiche (sarebbero appartenuti a persone di alto lignaggio nelle rispettive società) nemmeno le indagini successive poterono approdare ad una conclusione unitaria e atten-dibile.                               
Uno spiraglio di luce venne nel 1800 dalle ingegnose ricerche del famoso medico e antropo-logo francese Paul Broca, secondo le quali gli interventi sul cranio erano stati effettuati non su soggetti deceduti, ma ancora vivi, poiché la volta cranica mostrava evidenti segni di rigenerazione e di riparazione, per neoformazione di tessuto osseo. 
Attualmente gode molto credito la tesi secondo cui la trapanazione sarebbe stata compiuta allo scopo di decomprimere il cervello da qualche frammento di osso fratturato; visto poi che decomprimendo il cranio si risolvevano spontaneamente i disturbi concomitanti (paralisi, as-cessi cerebrali, convulsioni), i medici si convinsero probabilmente che la stessa tecnica di tra-panazione potesse valere anche per guarire altre malattie.
La trapanazione veniva effettuata con uno speciale strumento detto tumi, e secondo tecni-che diverse, prova questa della notevole perizia e inventiva dei chirurghi.
I medici Aztechi erano molto abili nel porre la diagnosi; per la terapia disponevano di ben 30 00 diverse piante medicinali. 
La salsapariglia, ad esempio, trovava largo impiego come diuretico nelle malattie del rene e delle vescica, oltre che nel trattamento delle eruzioni (in questo caso veniva data per garga- rismi)
Come si sa, dopo l'arrivo degli Spagnoli la salsapariglia invase rapidamente l'Europa, dove trovò largo impiego soprattutto nel trattamento (illusorio) di quella malattia che gli Amerindi avevano forse loro regalato: la sifilide.
Un'altra pianta medicinale, un piccolo cactus, era detta peyotl (Lalophora williamsii), che cre-sceva nelle regioni settentrionali del paese. 
"Esso seda i dolori quando applicato sulle articolazioni dolenti"... 
Ma chi mastica la scorza o ne beve il succo prova una voglia irrefrenabile di ridere, avverte allucinazioni "demoniache" ed eccitanti; e diviene addirittura in grado di predire il futuro.
Oggi si sa che questa pianta, largamente impiegata dai medici e dai sacerdoti Aztechi, contie ne una trentina di alcaloidi, dei quali la mescalina è responsabile degli effetti allucinogeni.
Il camotl era invece una piccola pianta tuberosa che provocava apatia, rendendo il soggetto insensibile al dolore e indifferente all'ambiente circostante (l'azione è dovuta al suo contenu-to in saponina)
Spesso la si somministrava alle vittime dei sacrifici umani.
Un'altra pianta che troverà largo impiego nella medicina occidentale sino ai nostri giorni era la gialappa, impiegata come purgante. 
Contro le convulsioni, risultavano invece efficaci i vapori di incenso e l'olio di coppale.
Quando i marinai di Colombo sbarcarono nel Nuovo Mondo furono colpiti da un fatto piuttos-to curioso: gli indigeni "bevevano il fumo".
Ma il tabacco era per quelle popolazioni qualcosa di più di un piacere: era soprattutto un mo do per indurre un invidiabile "stato di tranquillità", cioè per sedare. 
La sua polvere risultava inoltre -a detta degli indigeni- molto efficace contro l'emicrania, le vertigini e le malattie del naso.
Quest'erba era detta anche cohoba, e i Gesuiti avocarono a sé il privilegio di coltivarla e di spedirla in Europa. 
Poiché le spedizioni avvenivano nel porto messicano di Tabasco, le foglie presero appunto questo nome (che divenne poi "tabacco").
Nel 1560 Jean Nicot, ambasciatore di Francia in Portogallo, inviò a Francesco II e Caterina de' Medici dei semi di tabacco, vantandone le virtù curative specie per il mal di testa, di cui soffriva la regina. 
Posselt e Reimann isolarono nel 1828 l'alcaloide del tabacco, al quale in ricordo dell'amba-sciatore Nicot diedero il nome di "nicotina".
Gli europei si invaghirono tanto del tabacco come medicamento che giunsero anche a sommi-nistrarlo per clistere.
Un'altra polvere molto in voga era il cacahuatl, che si otteneva essiccando e triturando le bacche del cacao: trattato con latte, vaniglia e miele, costituiva la bevanda tonica per eccel-lenza presso gli Aztechi.
Dopo la scoperta del Nuovo Mondo, molte di queste piante furono importate in Europa, rivoluzionando letteralmente l'intera farmacopea occidentale ancora ferma alla medicina clas sica e degli Arabi.
Accanto ai medicamenti di origine vegetale, i medici Aztechi non disdegnavano quelli di deri-vazione animale, come la cenere, le corna calcinate, il sangue, la bile, gli estratti di cervello e di altri organi.
Disponevano anche di un materiale di cui i conquistadores non sospettavano nemmeno l'e-sistenza: la gomma, che impiegavano come vescicante in forma di larghi fogli sul torace in ca-so di pleurite, e sulle articolazioni contro i reumatismi. 
Per questi ultimi ricorrevano anche ai massaggi, ai bagni di vapore e alla sauna.
                                   
Gli indios Zapotechi del Messico, secondo la loro tradizione precolombiana, avevano due miti cosmo-gonici, uno celeste e uno terrestre.
 Entrambi sono giunti fino a noi attraverso la mediazione di un missionario domenicano, fray Francisco de Burgoa che, nell’intento di estirpare ogni traccia di presunta idolatria e diffondere il credo cristiano, si occupò di raccogliere “las fa-bulas” dei popoli indigeni, per meglio censurarne ogni eventuale permanenza. 
Il mito celeste fa derivare l’origine del mondo e del genere umano da una stella luminosa, con tutta probabilità il sole, che scesa sulla terra in forma di uccello (la guacamaya, sorta di grande pappagallo dalle piume verde brillante) avrebbe dato ini-zio alla creazione di tutto ciò che esiste.
L’altra versione del mito, invece, che può considerarsi tripartita, menziona tre diverse origini che gli indios si attribuivano, a seconda della caratteristica del loro popolo che volevano esaltare. 
Il passo della Geográfica descripción recita: «[…] éstos, ya por preciarse de valientes, se hacían hijos de leones, y fieras silvestres, si grandes señores, y antiguos, producidos de árboles descollados y sombríos, si invencibles y porfiados, de que se preciaban mucho, que los habían parido escollos, y peñascos [...]»
La prima fa discendere gli uomini valorosi dalle fiere selvagge; 
la seconda afferma che i sovrani più antichi e importanti nacquero dagli alberi più alti e frondosi; 
la terza vuole che i guerrieri invincibili e caparbi vantassero di essere sorti da rocce e scogli.
Di queste tre possibili genesi, quella che ebbe più fortuna attraverso i secoli fu la seconda
Ancora oggi, infatti, nella regione dell’Istmo di Tehuantepec, nel sud dello Stato di Oaxaca, gli anziani indigeni raccon-tano che l’umanità fu partorita dalle radici degli alberi
Il poeta Andrés Henestrosa, che ha studiato l’etimologia del termine autoctono binningula’sa – in realtà ci dice che, “za-poteco” è un appellativo nahua, imposto dagli Aztechi che conquistarono il territorio poco prima dell’arrivo degli spagnoli –, ritiene che nel nome col quale il popolo chiama se stesso sia racchiuso il mito originario: binni «gente», gu «radice», la’sa «flessibile», ovvero «gente nata dalle radici flessibili»
Le radici flessibili, altro non sono se non la parte più tenera ed elastica della pianta, quella più a diretto contatto con la terra, dalla quale traggono il nutrimento, per esprimerci in termini scientifici contemporanei, gli apici radicali. 
Per questo gli indios sono convinti che la forza vitale, pulsante, duttile e capace di generare sia contenuta nella parte più tenera della radice.
                 
I missionari, purtroppo, si premurarono di distruggere accuratamente tutti i codici Zapotechi
Ma possediamo alcuni codici degli indios Mixtechi, un popolo molto affine a quello zapoteco, che a partire dal X secolo d.C., subentrò a quest’ultimo nella supremazia territoriale della regione oaxachegna
Fra questi documenti il più interessante dal punto di vista mitologico è senza dubbio il Codex Vindobonensis, un “libro” precolombiano (in pergamena di cervo, ripiegata a fisarmonica e costituita da 52 lamine), probabilmente risalente al XIV secolo, nel quale è narrata, in forma pittografica, la nascita dei primi dèi e la loro decisione di creare il mondo, popolarlo e instaurare leggi e riti che consentissero un’esistenza armoniosa. 
Nella lamina 37-f è rappresentata la nascita dei primi esseri dal Grande Albero dell’Origine
Secondo gli studiosi che si sono occupati di decifrare il testo Mixteco, in questa pagina si racconta di come, in seguito alla creazione della terra, del sole, della luna, del tempo e della morte, il dio Quetzalcoatl (9 Vento), convocò una riunione alla quale presero parte tutti gli dèi, gli spiriti e i primi sacerdoti, con l’obiettivo di tagliare il Grande Albero, affinché po-tessero venire alla luce gli esseri che in esso si trovavano in gestazione. 
Nell’immagine è visibile al centro l’albero, il cui tronco ha una forma bombata come se fosse gravido. 
La corteccia viene incisa da due sacerdoti, le figure dipinte di nero, con in mano strumenti appuntiti, e dalle fenditure del tronco sorge il primo di una serie di personaggi, che sono stati identificati in diversi modi, come capostipiti di dinastie reali, sommi sacerdoti o antenati divini del popolo. 
Qualunque sia l’interpretazione più corretta, non c’è dubbio che l’essere dipinto di rosso sia uno dei primi uomini a po-polare la terra.
        
Questa breve incursione nella mitologia Zapoteca e Mixteca, che fa dell’albero (probabilmente una ceiba, pianta della fa-miglia delle malvacee), il progenitore sacro del genere umano, dimostra come la relazione che i popoli amerindiani concepivano – e continuano a concepire – nei confronti delle piante fosse strettissima e carica di molteplici significati: i vegetali non solo sono dispensatori di alimento e medicina, ma sono anche esseri venerabili, perché da essi hanno origine l’esistenza e la conoscenza.
                            
Maya
Stemma del Messico
La civiltà Maya fiorì nella zona del Centro America, più precisamente, nella zona che si esten-de dal sud della Penisola dello Yucatán fino all'Honduras e El Salvador passando per Guate-mala e Belize.
                          
Gli archeologi dividono questa vasta area in due regioni: la regione del sud, anche denomi-nata "terre alte", costituita dal sistema montuoso presente sul territorio guatemalteco e la regione del nord, o "terre basse", che comprende la foresta tropicale sia del Guatemala che del Belize del nord e le zone più aride della penisola dello Yucatán.
                         
Così i tre periodi principali in cui viene suddivisa la storia dei Maya sono:
il Periodo Preclassico, che va dal 1500 a.C. al 317 d.C. secondo alcuni, e dal 1000 a.C. o dal 1800 a.C. secondo altri;
il Periodo Classico, che va dal 317 (anno corrispondente all'anno più antico del calendario maya) al 987 d.C., suddiviso a sua volta in tre periodi:
il Periodo Classico Arcaico, che va fino al 500 circa, in cui si assistette allo stanziarsi dei Maya e alla bonifica della giungla;
il Periodo Medio Classico, con una pausa a cui segue una ripresa con rinnovata lena;
il Periodo Classico Finale, a partire dall'800, in cui avviene il declino e l'inspiegabile abban-dono di tutto quanto s'era creato;
il Periodo Postclassico, che inizia a partire dal 987.
Anche per i MAYA esisteva tutta una cosmogonia medica, con dèi buoni e dèi cattivi. 
Se i secondi prevalevano sui primi, subentrava la malattia: e, prima di iniziare il trattamento, il medico pretendeva che il paziente confessasse eventuali colpe.
Le malattie più diffuse tra i Maya furono l'asma bronchiale, la polmonite, i reumatismi, l'eresi-pela, l'ascaridiasi, la malaria, la febbre gialla, la dissenteria, l'epilessia e la carie dentale.
I Maya erano buoni conoscitori dell'anatomia e della fisiologia, specie dell'apparato genitale maschile e femminile. 
Ponevano il cuore al centro della vita, e credevano che nelle vene circolassero liberamente gli spiriti vitali, che davano segno di sé tramite le pulsazioni.

                            Numerazione maya                                          Una maschera in giada dei Maya
                      

Le fantasiose predizioni di Sitchin e della Lieder sono state recentemente collegate grazie all’antico calendario dei Maya, secondo i quali l’attuale Età dell’Oro (la quinta dell’umanità), terminerà proprio in questa data.                                        
Mentre le precedenti quattro erenell’ordine di (Acqua, Aria, Fuoco e Terra) si sarebbero con cluse, secondo i seguaci di questa profezia, con immani sconvolgimenti ambientali, provocati da inversioni del campo magnetico terrestre.
La data del nostro calendario Gregoriano corrispondente a quella dei Maya sarebbe il 21 di- cembre 2012.
Gli studiosi seri delle antiche civiltà mesopotamica e precolombiana non danno alcun credi- to a queste previsioni e credenze collegate alla New Age. 
Ma una delle caratteristiche della nostra epoca è proprio quella di prestare ingenuamente fe de a qualsiasi cosa, anche la più irrazionale. 
Del resto, diventa sempre più attuale la frase attribuita al grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton«Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, poiché comincia a credere a tutto».
                               Arte Maya Recipiente con divinita' che stringe tra le mani fiori di mais
                                  
                     

Il sortilegio di Argüelles

             Il 21 dicembre 2012 l'apocalisse per il calendario Maya 
La paura apocalittica legata al calendario della civiltà precolombiana risale al 1987 quando il professore d’estetica di Chicago José Argüelles (morto a marzo) pubblicò Il fattore Maya, li bro che ebbe una discreta diffusione sia negli ambienti New Age americani, sia nei salotti hip pie europei.
Argüelles incastonò le scoperte archeologiche del mesoamericanista John Eric Thompson in un guazzabuglio di teorie su flussi energetici e armonie cosmiche, asservendo le nozioni del-la storia alla New Age.
Tra le teorie c’era l’epigrafe di Tortuguero, scoperta nella metà degli Anni 50 nel Sud del Messico, che riferiva della discesa dal cielo di Bolon Yokte, dio della distruzione e della crea-zione. 
Ciò sarebbe avvenuto alla fine dei tempi, ovvero secondo Argüelles a dicembre 2012.
                                   Codificati tre diversi calendari                         
Maya sono sinonimo di mistero e occultismo
La loro ossessione maniacale nel catalogare l’alternarsi di giorno e notteestate e invernofestività religiose e cerimonie pubbliche li spinse a codificare ben tre calendari.
Il primo, chiamato Tzolkin, aveva un’entità religiosa e durava 260 giorni (13 cicli di 20), il secondo, l’Haab, aveva invece una valenza quotidiana e prevedeva 365 lune
Lo Tzolkin e l’Haab erano stati concepiti con un rigore matematico tale da farli coincidere ogni 52 anni (18.980 giorni).
Il terzo calendario, l’ultimo e il più problematico, non classificava mesi o anni, ma epoche
Un’era Maya era costituita da 5.122 anni e secondo l’archeologo Thompson l’anno zero cadeva l’11 agosto del 3.114 (a.C.)
Dunque secondo l’archeologia la prima era si è conclusa nel 2008.
Festa alla fine del Calendario 
Il problema sta nelle suggestioni che gli ruotano attorno. 
Secondo Mark Van Stone e Sandra Noble, membri della fondazione per il progresso degli studi mesoamericani (Famsi), la fine di un calendario è infatti ben diverso dalla fine del mon- do: per i Maya giungere alla conclusione di un'era comportava prepararsi a lunghi festeggia-menti propiziatori fatti sì di sacrifici, ma anche di fiaccolate, danze, tamburi e riti sciamani.
Nulla a che vedere quindi con visioni apocalittiche e nichiliste
Una sorta di proto-capodanno quello dei Maya, insomma, in cui vita e mortevecchio e nuo-vocreazione e distruzione si intrecciavano con gusto apollineo e dionisiaco.
                           

Dal 989 si susseguono le previsioni per la fine del mondo

Quella della fine del mondo è però una storia che si ripete da secoli.
La prima apocalisse era stata prevista con lo avvistamento della cometa Halley nel 989 e la seconda l’anno successivo con la ripetizio-ne esoterica del numero nove, poi riformula-ta, interpretando Nostradamus, nel 1999.
E ancora: il monaco Gioacchino da Fiore, basandosi sulla numerologia del Libro della Rivelazione di san Giovanni, aveva predetto un disastro nel 1260.
John Wesley, fondatore della Chiesa protes-tante metodista, aveva previsto la fine nel 1836
mentre il capo della Chiesa dell’unificazione, 
Sun Myung Moon aveva puntato sul 1967.

Vade Retro - parla della profezia dei Maya e delle sétte millenariste

TREPANAZIONE NEL PERÚ ANTICO
Incas
Quando un INCA si ammalava, il medico (hampi-camayoc) prescriveva il digiuno, un vomitivo o un purgante; indi praticava un massaggio.
Poi somministrava il medicamento necessario, che aveva imparato a usare durante il lungo e snervante tirocinio che aveva dovuto fare nella "Scuola dei Nobili" di Cusco
                               
Nei casi particolarmente difficili ricorreva al metodo, diffuso anche altrove, di interpretare la malattia in base alla disposizione delle foglie di coca che gettava sul terreno. 
Ma doveva stare molto attento a compiere correttamente il proprio mestiere, perché le con-danne per "malpractice", così di moda anche oggi, erano sempre molto severe.
Basta pensare che presso i Mochica, quando la morte del paziente veniva addebitata fuori di ogni fugato dubbio al medico, questi veniva bastonato, lapidato, o anche legato vivo al cadavere del cliente ed esposto ai rapaci.
Tuttavia, i medici erano in genere ben preparati e costituivano una casta organizzata, che disponeva addirittura di raccoglitori di erbe medicinali, pagati dallo Stato, e di colla huayu, cioè di farmacisti itineranti che viaggiavano con il loro campionario di medicine e di semplici.
Tra i medicamenti più richiesti figuravano i purganti, di solito a base del frutto uill-cautari, che veniva preso per bocca o per clistere (uilla-china)
V'era poi un gran numero di abortivi, tra i quali primeggiava la radice di euforbia.
Contro la diarrea venivano impiegate l'argilla (contenente alluminio, silicio e magnesio) e la scorza in polvere di ratantici (ricca di tannino), mentre la "barba" della pannocchia non anco- ra matura esplicava un'azione diuretica insospettata.
V'erano poi la resina dell'albero del pepe, indicatissima contro i parassiti intestinali, e quella dell'albero del mulli, ottimo cicatrizzante delle ferite. 
Il succo della papaya si mostrava invece molto utile contro gli eczemi ribelli, mentre chi aveva la scabbia bastava che applicasse tra le dita un po' di grasso di maiale.
Una medicina efficacissima contro due temibili malattie -la verruca peruviana e la leishmania- si- era il solfato d'arsenico, che gli Incas chiamavano hampiyoc hampei, cioè medicina morta-le.
Ma v'era una pianta destinata a svolgere un ruolo di primo piano nella cultura e nella medi-cina Inca, e successivamente nella farmacopea occidentale: la cuca o coca, che vegetava nel le calde vallate delle Ande
Già se ne conoscevano i pericoli, tanto che le coltivazioni erano piantonate a vista da guar-die bene armate, e le foglie secche venivano distribuite soltanto una volta al giorno a coloro che lavoravano all'aria frizzante delle Ande
Gli effetti erano noti: masticando lentamente le foglie di coca viene stimolata la respirazione e la circolazione, aumentata la resistenza alla fatica e -soprattutto- attenuata la fame (per anestesia della mucosa gastrica).
L'uso liberale della coca era consentito solo ai sacerdoti, in quanto con essa potevano sin-tonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda degli dèi o esorcizzare i demoni del male.
Un altro rimedio davvero efficace era il balsamo del Perù, che si otteneva dall'ebollizione del- la corteccia di Toluifera pereirae
Un altro balsamo, il balsamo del Tolù, molto attivo contro l'asma e la peste, entrò successiva- mente, e rimase per secoli, nella medicina occidentale.
Tra le malattie certamente note agli Incas figuravano la polmonite, la bronchite, il raffreddo-re, l'uta e l'acaoana-aypacha "cancro delle Ande", una leishmaniasi ulcerosa e necrotizzante del viso.
Altra malattia molto temuta era la verruga, trasmessa da un dittero, che gli indigeni curava- no con un'infusione di radici. 
Il salasso veniva praticato pungendo la vena prescelta con una spina d'agave. 
Era anche in uso il clistere, costituito da una pompetta di caucciù.

I chirurghi Incas erano particolarmente esperti nel ridurre le fratture, nel trapanare o defor-mare il cranio, nell'eseguire la circoncisione, o anche la mutilazione del naso come punizione decretata dal giudice per il reato di infedeltà.
                                           Trapanazione neurochirurgica dagli antichi Incas
                  
La procedura nota come trapanazione, in cui viene effettuato un foro nel cranio, è un’antica forma di neurochirurgia che vie-ne svolta sin dall’età della pietra. 
Esattamente il motivo per cui popoli antichi effettuavano la trapanazione è rimasto una questione di dibattito: alcuni ricerca-tori sostengono che essa veniva effettuata per motivi medici, come oggi, mentre altri credono che veniva fatta per magia o per motivi religiosi.
Un nuovo studio americano condotto da due antropologi fornisce la prova che gli Inca eseguivano la trapanazione per il trat-tamento di lesioni encefaliche; che la procedura era di gran lunga più comune di quel che si è sempre pensato, e che i chirur-ghi Incas erano altamente qualificati con una conoscenza approfondita del anatomia del cranio e dell’encefalo.
Nella capitale Inca di Cuzco, in uno scavo, sono stati ritrovati 411 teschi, di cui 66 presentavano queste perforazioni di varie forme e dimensione. 
Più della metà sono di forma circolare, ma alcune sono irregolarmente ovali o quadrate, e uno (come in figura) è di forma rettangolare. 
I diametri dei fori circolari vanno da circa 0,3 – 7,3 cm.
Gli studiosi sostengono che gli Incas trapanavano il cranio principalmente per il trattamento di lesioni della testa provocate durante battaglia. 
I fori sono più spesso presenti nella parte anteriore del cranio a sinistra, coerente con gli infortuni causati da un colpo diretto alla testa, durante gli incontri faccia a faccia, e perché i teschi rinvenuti erano per il 90% di maschi adulti. 
Un altro motivo potrebbe essere il trattamento di mastoiditi, un’infezione della regione dell’osso temporale dietro l’orecchio.
Quindi, questo nuovo studio fornisce una prova evidente che gli Incas eseguivano trapanazioni per specifiche condizioni medi che, e può finalmente risolvere il dibattito sui motivi per cui le antiche civiltà eseguivano incisioni craniche. 
Da ciò si capisce inoltre che gli Incas sono stati altamente qualificati chirurghi con una conoscenza approfondita dell’anato-mia cranica e un’alta maneggiabilità delle proprietà medicinali delle varie specie di piante selvatiche.
Sotto un trapano perforatore del XIX secolo con manico in ebano e due posizioni per la punta
trapano cranio
La punta della trivella, al centro, serviva come guida per iniziare a perforare il cranio e successivamente, grazie alla levet-ta visibile sul fusto, veniva ritratta per evitare danni al cervello.
                                                 PELLEROSSA
ruota della medicina dei Pellerossa
                          
Anche presso le popolazioni del Nord America i medici erano tenuti in alta considerazione: al la loro morte, avevano diritto alle onoranze funebri riservate alle personalità della tribù, e le loro spoglie erano issate alla sommità del totem.
Una pratica molto in uso nella medicina dei PELLEROSSA era l'imposizione delle mani a sco-po di guarigione; oppure si applicava sulla parte malata una specie di coppetta di pietra nera, che "aspirava" il male. 
Se un paziente affetto da una malattia particolarmente grave guariva inaspettatamente, anche a lui venivano riconosciuti poteri terapeutici soprannaturali e il diritto di esercitare la medicina.
Anche se primitiva, la medicina del Nord America non mancò di influenzare sotto certi aspetti quella più progredita del Vecchio mondo
Gli sciamani si servivano di cerimonie rituali per aiutare la mente e il corpo
Paracelso, ad esempio, nel 1500 si ispirò proprio -per formulare una sua teoria- ad un'anti-ca credenza dei Pellerossa: l'efficacia terapeutica di una pianta è strettamente connessa al suo aspetto.
  
Per esempio, le piante di aspetto vermiforme risulterebbero efficaci contro i vermi intestinali, quelle con linfa biancastra favorirebbero la lattazione, mentre quelle dotate di fiori gialli sa-rebbero ottime contro l'itterizia. 
Contro la calvizie si poteva usare l'erba clemantide, per il suo promettente aspetto villoso; contro le convulsioni, i rami contorti.
Molto ricco era il bagaglio terapeutico dei medici Pellerossa
                
Come diuretici o sudoripari risultavano ottimi il ginepro e il sassofrasso; ottimo purgante era-no le radici di endocheira, mentre contro la diarrea si poteva liberamente scegliere tra l'infu- sione di prugne selvatiche e la scorza di pino o di altri alberi, tutti ricchi di tannino.
Oltre alle infezioni e alle infestazioni, la moderna paleopatologia ha accertato presso gli anti chi Pellerossa l'esistenza di affezioni come la tubercolosi vertebrale (specie di quella forma oggi nota come morbo di Pott) e i tumori delle ossa
Del problema della sifilide viene detto oltre, nel Capitolo dedicato alla Medicina del '500.
Una sostanza usata dai Pellerossa che sarebbe poi entrata nella Medicina occidentale fu in fine il curaro, che gli indigeni usavano per avvelenare le frecce usate contro i nemici e più semplicemente per paralizzare gli animali durante la caccia: la sua azione è infatti quella di paralizzare la muscolatura lasciando tuttavia integro il sensorio.
V'erano poi il gund (ingrossamento dell'ossa nasali), il surumpi (infiammazione delle palpe-bre) e il soroche o mal di montagna, legato alle caratteristiche orografiche della regione.
                       
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     E... non finisce qui
Pubblicato su Blogger oggi 05 gennaio 2013 alle ore 23,30 da: Giuseppe Pinna de Marrubiu

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